di Piero Maestri su il Manifesto
L’assemblea del 22 dicembre al teatro Quirino ha rappresentato a mio avviso l’ultimo atto di una speranza che si era aperta a sinistra per una presenza elettorale alternativa al patto Pd-Sel, con caratteristiche davvero nuove di costruzione dal basso, facendo tesoro degli errori del passato per non ripeterli. In realtà già il giorno precedente un duro colpo al progetto di «Cambiare si può» era stato dato da Antonio Ingroia, con la sua assemblea nazionale che ha segnato una vera e propria Opa nei confronti di tutto il processo, con la sua idea di «dialogo» con il Pd che rappresenta una scelta non tattica ma di collocazione: esterni ma non alternativi al centrosinistra e «spina nel fianco» perché questo possa cambiare politica.
D’altra parte lo stesso «decalogo» presentato dal magistrato siciliano rappresenta un programma davvero poco di sinistra e contiene affermazioni imbarazzanti e inaccettabili per chi vorrebbe presentarsi come alternativo: pensiamo anche solamente all’idea reazionaria secondo la quale in Italia gli imprenditori subiscano ancora «lacci e laccioli» burocratici o di tasse. Per non parlare di quello che non dice sulle politiche di austerità, il «fiscal compact», i diktat dell’Unione Europea…
L’assemblea del 22 dicembre non è riuscita a difendersi dal ritorno di un ceto politico della sinistra già «radicale» che si ripresenta sulla scena senza aver mai davvero fatto i conti con le sue scelte degli anni passati. È in questo senso imbarazzante vedere che all’intervento di un’attivista contro la base Dal Molin come Cinzia Bottene seguano quelli di ministri, viceministri e sottosegretari del governo Prodi che quella base militare ha accettato e sottoscritto (così come l’acquisto degli F35) senza fare nemmeno un briciolo di autocritica e senza nemmeno chiedersi se in fondo l’assenza della «sinistra radicale» dal parlamento non sia avvenuta proprio per quella partecipazione al governo e l’incapacità di pensarsi davvero come alternativi al centrosinistra.
A questo punto la possibile lista degli arancioni si caratterizza come un «quarto polo» elettoralmente distinto dal centrosinistra, con il quale però si lasciano aperte le strade per accordi successivi, di governo o sostegno in qualche modo. E i partiti presenti sono disposti ad accettare questa conclusione perché per loro è l’ultima spiaggia per ritornare in parlamento con qualche deputato e rientrare così nei giochi della «politica alta»: vale per il Prc e ancor più per Di Pietro e la sua Italia dei Valori in piena crisi e per i decotti comunisti italiani di Diliberto, ai quali fornisce un’occasione per potersi presentare all’elettorato con un po’ di riverniciatura sfruttando l’autorevolezza di Ingroia. Insomma, tutti questi giochetti fanno rientrare dalla finestra quelle tanto aborrite manovre politiciste che si volevano far uscire dalla porta e ripropone logiche verticistiche che non rispettano in alcun modo le discussioni delle assemblee locali e le speranze suscitate dall’insieme del processo. Ma questo finale va bene al progetto di «Cambiare si può»?
Le assemblee del progetto «Cambiare si può», con molti limiti, hanno rappresentato un dato molto positivo per la partecipazione, per la discussione approfondita, per lo spirito unitario che le ha animate e per l’interesse e il consenso che hanno ricevuto contenuti di radicale alternativa alle politiche liberiste, al cappio del debito, alla distruzione del bene pubblico. Forse a questo punto dobbiamo prendere atto che questo spirito, queste speranze, questa disponibilità a ricostruire forme unitarie di partecipazione politica a sinistra – con caratteristiche nuove e di rottura con le esperienze del passato – non debbano essere sprecate in un imbuto elettorale e che invece si possa cominciare a costruire una Agenda alternativa al liberismo del centrosinistra e distinta dal decalogo di Ingoia; un’agenda dei movimenti e delle lotte sociali, con robuste dosi di anticapitalismo – oggi assente da questo dibattito – che non cerchi scorciatoie elettorali ma provi con «lenta impazienza» a ricostruire radicamento ed egemonia nella società.
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